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© Dal volume Il potenziale umano. Metodi e tecniche di coaching e training per lo sviluppo delle performance, Franco Angeli editore, Milano. Autore: Daniele Trevisani ____
Diverse visioni del concetto di performance: sfida, lotta, missione, contributo, emancipazioneIn questo volume racchiudo più di vent’anni di lavoro - tra studio, ricerca, formazione, esperienza diretta – su temi connessi alle performance. In estrema sintesi, dalle scoperte emerge che le performance ruotano attorno a tre grandi variabili: (1) le energie personali (fisiche e psicologiche), (2) le competenze (abilità, skills), e (3) le aspirazioni (sfide, mete, ideali, senso della “causa”, obiettivi), e quindi il senso di “direzione”. Figura 1 – Le tre variabili primarie delle performance
Ciascuno di questi macrouniversi contiene intere costellazioni, sistemi, pianeti, e mondi infiniti. Si è trattato e ancora si tratta di un “viaggio” di scoperta ed esplorazione, in un mondo senza fine. Le “sonde” che ho potuto utilizzare vengono da tre comparti diversi: (1) il mondo scientifico e della ricerca, (2) le mie esperienze dirette di lavoro sulle performance manageriali, sia nel lavoro in azienda in prima persona che successivamente nella consulenza e nella formazione, e (2) la performance in campo sportivo, osservata e vissuta direttamente come agonista e coach in diverse discipline. Man mano che gli studi e l’analisi di casi concreti sul tema proseguivano, si faceva più forte l’evidenza che il “viaggio” nella psicologia delle performance non riguardava solo le élite, i campioni, le aziende leader, i manager di alto livello, ma aveva implicazioni in ogni processo di crescita, in ogni attività che comprende una sfida, sia sportiva che manageriale, e in ogni forma di scoperta o avventura umana. Sono emerse enormi implicazioni nel fare quotidiano, dinamiche che toccano profondamente ciascuno di noi, quando ci impegniamo per raggiungere un obiettivo, anche minimale, o desideriamo passare da un sogno o ideale alla sua concretizzazione. È una performance non solo vincere una gara (prestazione agonistica) ma anche trovare la cura per una malattia (o darvi un contributo), crescere dei figli, e in ogni altra azione umana. Il nesso comune è trovare strade per l’emancipazione di se stessi e degli altri. Senza emancipazione e liberazione dalle catene non vi sono vere performance, ma solo atti meccanici. Ho evidenziato in apertura come il lavoro sulle performance richiede attenzione a tre variabili: (1) le energie, (2) le competenze (abilità, skills), e (3) le aspirazioni (sfide, mete, ideali). Questo lavoro è reso complicato dall’esigenza di trovare una giusta sinergia ed interazione tra l’intervento su vari livelli. Come formatore, ad esempio, ho scoperto che a nulla servivano le migliori lezioni (azione sulle competenze) se i destinatari erano privi di fuoco sacro o volontà di mettere in pratica i concetti. Come atleta, sia nella pallavolo che nelle arti marziali e ancora nel calcio, avendovi opoerato sia personalmente che come coach, ho notato come anche il più forte ed allenato degli atleti possa cadere di fronte ad una condizione psicologica sbagliata, e perdere gare che avrebbe altrimenti vinto. L’intreccio tra queste tre variabili o “universi” è una alchimia complicata. Rimanendo in un’ottica di estrema sintesi, posso dire che il fondamento sono tuttavia le energie. Le energie ci permettono di guardare a ideali e valori con occhi diversi, non solo come parole esili e astratte ma come mete tangibili che possiamo e vogliamo accettare. Man mano che le ricerche proseguivano si faceva più forte la convinzione che le energie personali sono il ponte verso qualsiasi traguardo, e per questo il volume tratta in larga parte della dimensione psicologica delle energie personali. Le energie sono il motore che alimenta la volontà, le aspirazioni. Sono il basamento dal quale possiamo osservare nuovi orizzonti, e concretizzarli. Nel loro altalenarsi dentro di noi, ci accorgiamo presto della loro indispensabilità: quando siamo senza energie ci troviamo spenti, scarichi, e quando ne siamo ripieni ci sentiamo in grado di “spaccare il mondo”. Se ne fossimo completamente privi ci troveremo incapaci di raggiungere qualsiasi obiettivo o anche solo di respirare. Il tema di come coltivare e far crescere volontariamente le energie umane e darvi direzionalità è vasto, enorme. Tocca innumerevoli materie e discipline, dalle scienze psicologiche sino alle scienze manageriali. Ma soprattutto, è una analisi che ci costringe a chiederci, in fondo, cosa sia l’uomo, e quali siano i suoi limiti, veri e presunti, le sue miserie, e le sue aspirazioni più nobili. Le energie personali sono connesse al potere personale, inteso come capacità interiore di un individuo di ottenere soddisfazione, di lavorare a sogni, ideali, brame. Concretizzare valori e principi, per quanto siano ardui o difficoltosi, è potere. Ma concretizzare richiede un sapiente mix tra forza, abilità, e volontà di raggiungere uno scopo. Ancora una volta, la triade che comprende aspirazioni, abilità e forza interiore si ripresenta. Il problema della forza interiore non è una fissazione ideologica o una moda, ma una evidenza scientifica che emerge dagli studi sulle performance, i quali evidenziano che anche un enorme repertorio di abilità può rimanere del tutto inutilizzato, se mancano le forze psicologiche e fisiche per applicarsi. Le energie interiori ci parlano anche di una dimensione molto umana, l’età mentale, e lo spirito di volontà che soffia nel sentimento di essere giovani, a qualsiasi età esso si manifesti. Questo sentimento è altalenante persino nella stessa giornata, alternando momenti di carica e voglia di fare a momenti di stanchezza o esaurimento. L’età mentale è diversificata dall’età fisica. Una persona mentalmente giovane coltiva sogni e aspirazioni, una persona mentalmente vecchia (al di la del suo corpo) ha smesso di sognare e volare con la fantasia, il suo fuoco si sta estinguendo. E questo non solo nell’individuo. Una società vecchia vive del passato e nella burocrazia, è ammantata da emozioni negative (paura, sarcasmo, cinismo), difende i propri piccoli spazi di potere ma non guarda oltre. Compie performance difensive, ma non proattive. Una società giovane si pone senza paura dei traguardi e ha la forza di emozionarsi per essi. Osserva al mondo in modo proattivo, desidera darvi un contributo, non sta seduta a guardarne lo sfacelo e non si intimidisce di fronte alle sfide. Non ha pura di ciò che non conosce ma lo vuole studiare, sperimentare. Lo stesso accade nelle aziende e nei team sportivi. Diventa quindi molto interessante per ogni ricercatore vero e per chiunque di noi, avere un modello che ci aiuti a rimetterci in moto (per fini personali), o ad aiutare un team ad ottenere le performance che desidera (per un coach), o ancora lavorare sul funzionamento ottimale delle persone, al di la delle performance che possono ottenere. Il funzionamento ottimale (optimal functioning) è infatti il nesso della ricerca sul potenziale dell’uomo e dei team (sia sportivi che aziendali). Ho potuto osservare che raramente una persona o un team che “funzionano male” internamente offrono prestazioni esterne positive, o se lo fanno questo non durerà a lungo. Dovendo studiare il funzionamento ottimale dell’uomo impegnato in una performance, e lavorando come formatore per migliorare la condizione che di volta in volta trovavo, sono emerse anche interessanti riflessioni sul funzionamento “sbagliato”, sulle patologie e sugli errori che tutti compiamo, consapevolmente o meno. Queste osservazioni possono dare luce ad una nuova forma di scienza di confine, che non sia esattamente nè una scienza dello sport, nè una scienza delle patologie (es: psicoterapia o medicina) nè una scienza dell’educazione e della formazione, ma una scienza del funzionamento ottimale dell’essere umano e dei team. In pratica, una scienza che cerchi il denominatore comune dell’essere umano che vuole raggiungere obiettivi, siano essi in campo aziendale, sportivo, sociale, o in altre sfere. Qualcosa di simile (uscire dal confine ristretto dello studio sulle “patologie”) sta cercando di fare anche la “psicologia positiva”, una nuova area di studio della psicologia, il cui interesse primario è tuttavia verso il funzionamento psicologico, e non per l’intera sfera delle performance umane. Una scienza delle energie umane e delle performance non è ancora stata realizzata e sviluppata in modo compiuto: ogni disciplina, nel proprio recinto, ne sfiora una parte, ma risulta per tutti difficile cogliere l’unità del senso. La fatica, le frustrazioni, le cadute, fanno quindi parte del percorso, anche del mio. Rimane da sfatare un mito. Il concetto che le performance siano un fine ultimo, un risultato in sè. Nei fatti, le performance sono un ponte verso traguardi molto più alti. Senza traguardi nobili le performance sono inutili. Il tema delle performance costringe tra l’altro a toccare un aspetto fondamentale, lo spirito vitale dell’uomo, la sua capacità o potere di raggiungere obiettivi o di risolvere problemi. Dovendo scegliere per forza uno solo tra tutti coloro che si sono impegnati in questo senso, va ricordato il fondamentale contributo di Carl Rogers, che, come psicologo e psicoterapeuta ha prodotto un volume fondamentale sul tema del potere personale, visto da una angolazione umanistica[1]. Adotto pienamente la visione di Rogers secondo cui:
...punto focale è l’individuo, non il problema. Lo scopo non è quello di risolvere un problema particolare, ma di aiutare l’individuo a crescere perché possa affrontare sia il problema attuale sia quelli successivi in maniera più integrata[2].
Possiamo quindi dire che uno degli scopi di una scienza delle performance è aiutare l’individuo nella sua ascesa, nella suo viaggio di “sblocco”, “decontrattura”, emancipazione, e progressione verso la crescita personale. La differenza tra l’approccio di Rogers e il mio contributo è soprattutto nella maggiore enfasi che cerco di immettere sul tema/problema dell’azione competitiva, della performance come lavoro integrato corpo-mente, rispetto alla visione più psicoterapeutica e clinica data da Rogers. Anche quando parliamo di competitività serve una distinzione. La competitività va intesa come atteggiamento di scoperta prima di tutto di un limite e di uno spazio interiore, poi e solo dopo come il piacere di una sfida esterna. È la voglia scoprire qualcosa, di guardare in nuovi luoghi del sapere, di dare contributi, di ricercare, prima e soprattutto, di fare un viaggio dentro di sè e fuori da sè. Anche qui voglio rendere un omaggio a Rogers proseguendo nella sua citazione, in cui egli coglie appieno il problema:
...se il soggetto riesce ad integrarsi al punto di potersi occupare di un problema con indipendenza, responsabilità e organizzazione maggiori, e con confusione minore, allora affronterà nello stesso modo anche altri problemi[3].
Le parole di Rogers riescono a contenere, in una frase, interi trattati. Nella loro semplicità racchiudono algoritmi e formule complesse, nemmeno troppo nascoste. Frasi che probabilmente sono destinate ad essere comprese tra secoli, e almeno a due livelli, il livello normale, e quello iniziatico, di chi legge il testo con atteggiamento analitico. In questa frase notiamo numerosi spunti. Vediamoli:
· “Integrarsi”. Integrare qualcosa significa che esistono porzioni separate da ricongiungere. È quello che cerchiamo di fare con il metodo HPM, riferendoci alle 6 caselle in cui si dividono le energie personali che alimentano le performance, tema che approfondiremo in seguito. · “Indipendenza”. Essere indipendenti richiede il possesso di competenze, di skills, di strumenti, e quindi sarà importante capire come poter accrescere il numero e qualità di competenze nelle persone, e in quali ambiti. · “Con confusione minore”. Il termine “confusione” fa riferimento al problema che in fisica viene denominato entropia, ovvero la dispersione di ordine, la perdita di coerenza e organizzazione che i sistemi subiscono per effetto del tempo e delle leggi del caos. Quindi, sarà importante capire dove, nel sistema individuo, si crea confusione, si creano incoerenze e dissonanze che frenano la persona e le sue performance, su che piani avvengono le incoerenze, e come poterle affrontare.
Trattare le performance ha anche implicazioni terapeutiche e psicoterapeutiche. In cosa la persona è “confusa”, perché lo è, quali forze contrastanti lo confondono? Come ricostruire una sana sensazione di “direzionalità”, più efficace, più felice? Come mettere mano all’organizzazione delle priorità personali? Questo è essenziale per tutti gli esseri viventi, ma ancora di più per chi vuole o viene chiamato ad accettare delle sfide e compiere ogni tipo di azione difficile, come atleti, medici, progettisti, ingegneri, ma anche madri, padri, educatori, scienziati, studenti. La performance è anche potere di lottare. Lotta agonistica per qualcosa (un goal, una sfida, un valore), e lotta contro i problemi, contro il male: il male di organizzazioni mal gestite, la malattia, la fame, l’ignoranza, la miseria manageriale o intellettuale, la perdita di speranza, la perdita del sogno, la materializzazione di tutto, il dolore. La performance non è da confondere con il correre contro, o voler essere per forza meglio di... Superare gli altri per il solo fine di farlo è il lato sbagliato della competizione. La performance è liberazione di vitalità, è dare, è esprimere, è condividere, diffondere e trasmettere energie, contribuire a qualcosa. Se dividiamo il termine performare in due otteniamo per-formare, ovvero costruire (formare) per una causa. Non esistono performance che possono ignorare il problema del lavorare o meno per una “causa”, di cosa vi sia dietro uno sforzo, di quali contributi stiano dando, per cosa si stia lavorando. Piccolo o grande che sia il contributo, è importante porsi il problema se i destinatari (persone, cause o missioni) ne siano meritevoli o meno, se le nostre personali energie, il nostro personale e limitato tempo, sia speso per una causa giusta o meno, se le nostre e altrui performance siano utili per un mondo migliore. Solo in questa logica le performance trovano il loro lato più nobile. Senza di essa, non esiste performance - per quanto elevata - che sia degna di essere nemmeno ricordata. [1] Rogers, Carl R. (1977). Carl Rogers On Personal Power. Delacorte Press, New York. Trad. It: Potere Personale. La forza interiore e il suo effetto rivoluzionario. Roma, Astrolabio, 1978. [2] Op. cit, p. 13. [3] Op. cit, p. 14
Altre schede di Psicologia della Performance:
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